BOTANICA
OPUNTIA FICUS-INDICA
di CARLA DE AGOSTINI
L’Opuntia ficus-indica, meglio conosciuto come ficodindia, è una pianta succulenta, con foglie spesse e carnose, della famiglia delle Cactacee ed è xerofila, ossia che vive preferibilmente in ambienti aridi, dove può raggiungere anche i 5 metri di altezza. La pianta non ha un tronco principale, i suoi fusti sono i cladodi, comunemente noti come pale, che si occupano della fotosintesi, mentre le sue foglie col tempo si sono evolute in spine. La sua grande capacità di adattamento in ambienti sfavorevoli è dovuta anche alla sua peculiare fotosintesi che limita le perdite di acqua. Questa via fotosintetica, chiamata Metabolismo Acido delle Crassulacee o CAM, separa nel tempo i processi di assimilazione e fissazione della CO2. Le piante CAM, infatti, aprono gli stomi di notte e non di giorno per l’assorbimento di anidride carbonica. Questo avviene perché di notte le temperature sono minori e la pianta perde meno acqua di quanta ne perderebbe di giorno, quando invece chiude gli stomi e converte l’energia in zuccheri semplici. Questo tipo di fotosintesi aumenta la capacità delle piante succulente di mantenere l’equilibrio idrico, motivo per cui la maggior parte delle piante CAM occupa ambienti aridi o salini, e in generale tutti quelli nei quali la disponibilità idrica è periodicamente bassa.
L’origine dell’epiteto Opuntia ficus-indica è stata oggetto di dibattito: secondo alcuni deriva da un’antica regione della Grecia, la Locride Opuntia e dalla sua capitale Opunte, nei cui pressi gli scritti di Plinio il Vecchio riportavano di una pianta con frutti gustosi che radicava dai rami. Col tempo, però è stato confermato che la pianta è originaria del Messico e il nome botanico è quindi dovuto alla somiglianza morfologica del suo frutto col fico mediterraneo e all’origine geografica, le Indie occidentali. Una leggenda vuole che ai tempi dei conquistatori spagnoli l’imperatore degli Atzechi, Montezuma, fosse solito ricevere come tributo dagli stati assoggettati sacchi pieni di grana. Ossia una cocciniglia (Dactylopius coccus) parassita dei cladodi del ficodindia, dal cui corpo essiccato si può estrarre la tinta del rosso carminio, utile per tingere ceramiche, tessuti e architetture, di una tonalità talmente intensa mai vista prima. Il suo potere colorante è infatti dieci volte più forte e persistente del kermes, ritenuto fino ad allora il miglior prodotto per la tintura rossa, tanto che gli spagnoli decisero di tenere nascosto il procedimento per quasi due secoli e mezzo, creando il monopolio della grana cochinilla, che divenne tra i beni più richiesti. Tra i più grandi acquirenti spiccano gli inglesi che tenevano particolarmente al colore delle loro divise, le famose red coats. Fino a quando nel 1777 un medico francese riuscì a scoprire il processo. Ottenuta l’informazione gli inglesi esportano in Australia la pianta e la sua cocciniglia, nella speranza di realizzare piantagioni per realizzare la grana, ma nonostante il clima apparentemente perfetto, gli insetti non sopravvissero. Al contrario, i fichidindia divennero delle piante infestanti danneggiando i pascoli e il territorio: si stima che nel 1920 fossero diffuse su oltre 30 milioni di ettari, con una velocità di conquista di mezzo milione di ettari all’anno! Un danno enorme che ancora oggi si sta cercando di porre rimedio cercando soluzioni.
In Europa la pianta venne introdotta per il fascino che emanava e nel XVI secolo divenne un importante protagonista dei giardini botanici, sia per ragioni di curiosità scientifica e che per la sua vocazione ornamentale. Successo confermato anche dalla frequenza con cui la pianta è rappresentata nei disegni o nelle arti figurative, come ad esempio nella Fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona, dove Bernini mette l’Opuntia a sfondo della rappresentazione del Rio de la Plata.
In tutto il bacino del Mediterraneo la sua capacità di adattamento e di propagazione ne hanno facilitato la riproduzione, specialmente nelle isole italiane, dove il ficodindia si è acclimatato fino a divenire un elemento caratteristico del paesaggio e spesso viene utilizzato come frangivento o recinto per i greggi. Inoltre si è rivelato una inesauribile fonte di prodotti e funzioni, la pianta è stata subito apprezzata per l’uso foraggero dei cladodi e per i frutti, che possono essere consumati freschi o utilizzati anche per la produzione di succhi, liquori, gelatine, marmellate, dolcificanti e tanto altro. In Messico si mangiano anche i giovani cladodi, noti come nopalitos, e utilizzati come verdura fresca. La Sicilia è quella che presenta, storicamente, il più ampio panorama di utilizzazioni. Viene infatti coltivato nelle aree interne, dove i frutti vengono definiti addirittura il “pane dei poveri” e nelle zone costiere, tendenzialmente nei giardini fruttiferi per uso produttivo e di piacere. La tradizione contadina siciliana è ricca di prodotti del ficodindia, dal suo liquore ai mostaccioli (biscotti tipici) fino alla mostarda. Nel 1891 René Bazin, scrittore francese di fine ‘800, scrisse che “con una ventina di fichidindia… un siciliano trova la maniera di fare prima colazione, di pranzare, di cenare e di cantare nell’intervallo”.
Ed è dalle pale siciliane, e in parte sarde, che il ficodindia arriva e invade l’Eritrea, piantata sia dai missionari italiani del 19° secolo che dai migranti della prima colonizzazione italiana. Qui, i beles, nome in eritreo, non sono solo i frutti ma è anche l’appellativo scherzosamente dato dai coetanei del Corno d'Africa ai giovani eritrei di seconda generazione che risiedono in Italia, perché arrivano con la stessa puntualità dei frutti: nella stagione delle piogge estive, e poi ripartono.
Oggigiorno l’Opuntia ficus-indica viene usato per i prodotti più disparati, sia per il suo alto valore nutrizionale, ricco di minerali, soprattutto calcio, fosforo e vitamina C sia per la sua mucillagine, la sostanza che permette alla pianta di avere riserve d’acqua. Grazie ad essa, il ficodindia è infatti diventato un grande protagonista nelle innovazioni ecosostenibili. Per esempio, una professoressa messicana di ingegneria chimica, S. Pascoe Ortiz, ha brevettato un materiale plastico e biodegradabile: mescolando il succo di ficodindia con glicerina, proteine e cere naturali, ha ottenuto un liquido che dopo essere laminato ed essiccato, diventa una bioplastica completamente atossica, biodegradabile e commestibile. Anche in Italia proliferano gli utilizzi alternativi del ficodindia, ad esempio, sempre dalla mucillagine, è stato sperimentato un collante per le operazioni di restauro degli affreschi e dai suoi scarti un’industria tessile ha ricavato un eco-pelle cruelty-free. Ma non basta, ci sono anche occhiali da sole derivati dalle loro fibre, mobili e lampade scultoree realizzate con gli scarti delle pale che a fine vita sono interamente biodegradabili!